di GIORGIO PANDINI

Una manciata di giorni fa, il neoeletto presidente degli USA Donald Trump ha rilasciato alcune dichiarazioni sconcertanti durante una delle sue consuete conferenze stampa dalla villa di Mar-a-Lago a Palm Beach in Florida, lasciando interdetti sia i giornalisti che gli esperti di politica e scatenando un putiferio nei governi dei vari Paesi coinvolti e del consiglio europeo.
Ma cosa ha detto Trump di così terribile?

Le proposte.

Il tycoon (da sempre incline a spararle grosse) questa volta ha davvero alzato il tiro, prendendosela, innanzitutto, con il governo del Messico che, oltre ad essere responsabile dell’immigrazione illegale dei suoi cittadini verso gli States, si permette di dare il nome al Golfo (del Messico, sic).

Trump non ci sta e nelle sue intenzioni, tutto questo è destinato a finire presto. Poiché gli USA vi fanno uno sfruttamento commerciale intensivo – principalmente per la pesca e l’estrazione di petrolio, investendo ingenti capitali – hanno tutto il diritto di rivendicarne formalmente il controllo. Il nome del futuro sarà Golfo d’America.

Sempre in zona, il tycoon vorrebbe riprendere anche il controllo del Canale di Panama – realizzato e pagato dagli Stati Uniti – peccato però che Jimmy Carter, già Presidente, recentemente scomparso, abbia firmato un trattato di restituzione proprio con Panama nel 1977 (perfezionando due trattati precedenti).

Ma Trump non vuole sentire ragioni.
Critica aspramente il povero Carter senza riguardo alcuno (cosa che ricorda fatti analoghi con il senatore McCain), lasciando intendere di non escludere nemmeno l’uso della forza militare per riprenderne il controllo, strappandolo al controllo cinese.

Ma il novello Gengis Khan americano non si ferma qui nelle sue mire espansionistiche. Sostenendo che i canadesi sarebbero fieri di diventare statunitensi, vorrebbe eliminare i confini a nord.
In questo caso, tuttavia, il suo atteggiamento è più morbido: niente uso delle armi, in fondo i canadesi non aspettano altro, no? Poi basta con questa obsoleta foglia di acero!

Non è tutto: egli vorrebbe acquistare (o, in alternativa, conquistare militarmente) anche la Groenlandia – che attualmente è parte della Danimarca – territorio tanto esteso quanto ricco di terre rare che attualmente sono il nuovo petrolio: una fonte di reddito enorme su cui vorrebbe mettere le mani a tutti i costi.

Minacciando pressioni commerciali sullo stato Danese per costringerlo a cederne la sovranità, ha concepito lo slogan “Make Greenland Great Again”, nemmeno tanto originale, a ben guardare!
Per concludere, il tycoon si è nuovamente lamentato dei pochi investimenti dei Paesi Nato che dovrebbero aumentare la spesa militare al 5 per cento del proprio PIL (mentre a fatica l’Italia è arrivata all’1,57 per cento) previsto per il 2025.

E le risposte?

Non si sono fatte attendere.
Il Presidente del Messico, Claudia Sheinbaum si è presentata in conferenza stampa con una mappa del 1607 che indica sotto il nome di “America messicana” tutto il territorio che comprende Stati Uniti e Messico: quanto sarebbe bello se il Nord America venisse ribattezzato così!

Anche il governo panamense ha respinto al mittente le proposte espansionistiche ribadendo che il controllo del canale non finirà in mani americane. Punto.
Per quanto riguarda il Canada, il premier dimissionario Justin Trudeau ha rassicurato i propri cittadini sul fatto che il Paese “non diventerà mai il cinquantunesimo stato americano”.

Poi c’è l’Europa che sembra essere il continente in cui le idee di Trump provochino le reazioni più stizzite.
La premier danese Mette Frederiksen  ha dichiarato semplicemente che “la Groenlandia non è in vendita”.
A lei si è accodato il ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot che ha sottolineato come lo Stato stia facendo un percorso di autonomia dalla Danimarca che potrebbe portarlo all’indipendenza ed è escluso che l’UE consenta ad altre Nazioni di violarne i confini sovrani.

Certo Trump è sì spregiudicato ma non sprovveduto. È probabile che queste dichiarazioni, poco verosimili, siano solo un pretesto per far parlare di sé, distogliendo l’attenzione del pubblico da altre questioni ben più rilevanti, come la questione dei dazi sulle importazioni da Europa e Cina.

Come è accaduto anche nel suo precedente mandato, il cattivo rapporto con la Cina agita gli imprenditori della Silicon Valley, che hanno bisogno delle materie prime cinesi per garantire la produzione di componenti elettronici e oggi rischiano il verificarsi di un aumento vertiginoso dei costi di produzione per non parlare di una vera e propria carenza di materiali.

Ecco spiegato dunque l’improvviso avvicinamento a Trump da parte di Jeff Bezos proprietario di Amazon, di Sam Altman CEO di OpenAI e di Mark Zuckerberg di Meta. Quest’ultimo ha tolto da Facebook il famigerato fact checking (controllo di veridicità delle notizie).
I tre hanno donato un milione di dollari ciascuno al fondo di insediamento del neo Presidente e sono pronti a collaborare per i prossimi 4 anni.

La voce fuori dal coro. 

È quella di Tim Cook, l’uomo a capo di Apple che ha iniziato a diversificare l’approvvigionamento di materie prime cercando di limitare il predominio delle forniture cinesi. Sembra che l’intenzione sia di lasciar fare Trump senza mettersi apertamente in opposizione e la motivazione è squisitamente economica: Apple lamenta l’imposizione di sanzioni da parte dell’UE e il nuovo presidente pare abbia rassicurato il CEO garantendo che non permetterà al Vecchio Continente di approfittare delle aziende americane.

L’ultima annotazione su cui gli analisti si stanno concentrando è l’uscita di Blackrock – il più grande fondo di investimenti al mondo – dalla Net Zero Asset Managers, un gruppo di società che persegue l’obiettivo di emissioni zero entro il 2050 per raggiungere la neutralità carbonica.
Anche questa mossa sembra un allineamento alle posizioni politiche della nuova amministrazione, contrarie all’abbandono dei fossili per le nuove energie green.

Al di là delle dichiarazioni altisonanti, attorno a Donald Trump si sta muovendo un sistema complesso di riposizionamenti e di alleanze politiche ed economiche, prima della famigerata scadenza del 2030 sulla quale occorre essere vigili, attenti e consapevoli osservatori.