di BEATRICE SILENZI

L’energia nucleare è una delle questioni più complesse del nostro tempo, parlarne è difficile, tanto che sarebbe preferibile entrare in un campo minato.
Per l’UE rappresenta un compromesso tra ambizioni climatiche e divisioni politiche; in Italia, un ponte tra passato e futuro.

Perché se ne torna a parlare? Perché ritorna prepotente il tema dell’energia, della sua scarsità, perché c’è una transizione che gurdiamo dal basso come una spada di Damocle, penzolare sulla nostra testa.
Dunque serve un dibattito trasparente, basato su dati scientifici e partecipazione pubblica: questo è l’unico modo per capire se il nucleare in fondo è un alleato o un rischio troppo grande.

L’energia nucleare, da un lato, viene vista come una risorsa strategica per ridurre le emissioni e garantire la sicurezza energetica in un’epoca di instabilità geopolitica, ma, dall’altro, è sinonimo di rischi, costi elevati e una lunga scia di sfiducia popolare, alimentata da disastri, che tutti, a memoria d’uomo, ricordiamo: Chernobyl e Fukushima.

Nell’UE, il nucleare contribuisce oggi a circa il 25 per cento della produzione elettrica e in Italia, dopo decenni di rifiuto, il governo ha riaperto il dibattito con proposte ambiziose per un ritorno al nucleare entro il 2050, ma, prima di dedicarci a questo, facciamo il punto della situazione nella storia.

Il nucleare ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo energetico europeo a partire dagli anni ’50, quando il boom economico post-bellico e la necessità di indipendenza energetica hanno spinto Paesi come Francia, Regno Unito e Germania a investire nei reattori.
La Francia, in particolare, ha fatto del nucleare il pilastro del suo sistema energetico: oggi, con 56 reattori operativi, copre circa il 70 per cento del fabbisogno elettrico nazionale (dati di Electricité de France – EDF).

Nel 1957, la nascita di Euratom – il trattato che promuove la cooperazione nucleare in Europa – ha consolidato questa visione, favorendo la ricerca e la condivisione tecnologica, sebbene il percorso non sia stato privo di ostacoli.
Il disastro di Chernobyl del 1986, in Ucraina, ha segnato un punto di svolta: un’esplosione in un reattore ha rilasciato nubi radioattive su gran parte dell’Europa, causando migliaia di morti e malattie a lungo termine.
L’incidente ha scosso profondamente la fiducia della gente, portando a una revisione delle normative di sicurezza e, in alcuni casi, a un ripensamento delle politiche energetiche.

Più recentemente, nel 2011, il disastro di Fukushima in Giappone, causato da uno tsunami, ha riacceso il dibattito.
Oggi, l’UE conta 106 reattori attivi in 13 Paesi, ma la dipendenza dal nucleare varia enormemente: la Svezia e la Spagna lo utilizzano in modo complementare alle rinnovabili, mentre Austria e Danimarca lo rifiutano del tutto.

In Italia, finora la storia del nucleare è stata breve ma intensa. In due decenni a partire dagli anni ’60 ha costruito e gestito quattro centrali: Latina, Trino, Caorso e Garigliano. Nel 1986, queste producevano circa il 4 per cento dell’elettricità nazionale. Poi l’incidente di Chernobyl ha sostanzialmente modificato ogni cosa: l’onda emotiva ha portato a un referendum nel 1987, in cui gli italiani hanno votato per la chiusura delle centrali.

La decisione è stata confermata dopo Fukushima, con un secondo referendum che ha visto il 94 per cento dei votanti opporsi a nuovi progetti nucleari.
Da allora, l’Italia ha smantellato i suoi reattori, ma non è uscita del tutto dal nucleare.
Importiamo circa il 10 per cento dell’energia elettrica dalla Francia, gran parte della quale è di origine nucleare. Come se non bastasse resta ancora affrontare la gestione delle scorie radioattive delle vecchie centrali: secondo Sogin, la società responsabile, ci sono circa 30.000 metri cubi di rifiuti da stoccare in un deposito nazionale, il cui sito non è ancora stato individuato a causa di proteste locali.

Nell’Unione Europea, dunque il nucleare è al centro del Green Deal, il Piano per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050.
Nel 22, la Commissione Europea ha incluso il nucleare nella tassonomia delle attività sostenibili, riconoscendolo come una fonte a basse emissioni di CO2, scatenando opposte reazioni: plauso dalla Francia, sostenuta da Polonia e Repubblica Ceca che ha annunciato piani per sei nuovi reattori EPR (European Pressurized Reactor) entro il 2050, mentre Germania, Austria e Lussemburgo si sono opposti, definendo il nucleare “non sicuro”.

Il dibattito riflette una spaccatura più ampia: i paesi dell’Europa orientale, dipendenti da fonti fossili, vedono il nucleare come un’alternativa pulita, mentre quelli nordici puntano sulle rinnovabili. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), il nucleare potrebbe fornire fino al 15 per cento dell’energia globale, ma richiede investimenti massicci e consenso politico.

Nel nostro Paese ora il nucleare è tornato in auge già da un paio d’anni, quando il governo ha proposto un piano per sviluppare 10 GW di capacità entro il 2050, pari a circa il 15 per cento del fabbisogno elettrico nazionale.
Il Ministro della Transizione Ecologica ha giustificato la scelta come necessaria per ridurre la dipendenza dal gas naturale, che copre il 50 per cento della produzione elettrica, e per rispettare gli “impegni climatici”.

Il piano prevede l’uso di reattori modulari di piccola taglia (SMR), considerati più sicuri e meno costosi rispetto ai vecchi impianti.
I sostenitori, tra cui Confindustria e alcuni partiti di centro-destra, vedono opportunità economiche, mentre gli ambientalisti si oppongono, citando i rischi di incidenti e la mancanza di un piano per le scorie. I rifiuti radioattivi, è noto, restano pericolosi per millenni e i costi di gestione sono stimati in oltre 7 miliardi di euro. 

La sfida è enorme: la sicurezza richiede standard rigorosi e investimenti importanti, i costi potrebbero pesare sui contribuenti, distogliendo fondi dalle rinnovabili e la mancanza di consenso da parte della gente sarebbe un ultriore ostacolo. Come finirà?