ascolta l'articolo
Sono tempi difficili. Un po’ per tutti, per carità…
Ognuno di noi si sente vessato da qualcosa. Mai come in questo momento storico ci siamo sentiti amareggiati, stanchi, oppressi. Poveri, di soldi e di emozioni. E spesso le due cose vanno anche a braccetto.
Alcuni hanno da tempo compreso che“qualcosa è cambiato”, ma si rifugiano in un confortante “andrà tutto bene” (argh!) “non c’è da preoccuparsi, ce la faremo”.
Per altri, invece, “va tutto bene!” (...argh! bis) perché ogni cosa è rientrata nei ranghi della normalità e la vita, è la solita vita. Nessuna domanda da porsi.
Poi ci sono quelli come noi.
Noi, che siamo i rompiscatole del Sistema, a cui le problematiche sembrano, tuttavia, così chiare, in tutta la loro cruda nitidezza.
Noi che ce lo ripetiamo spesso. “Le cose non ci piacciono più”, anzi, le vediamo andare proprio a rotoli!
Ogni ambito della nostra quotidianità, della società, della nostra stessa esistenza non ci appare più né equo, né giusto, né corretto e ce lo diciamo, aggrappandoci a chi è come noi, perché è il solo che possa capire.
Ed ogni volta spunta qualcosa di nuovo su cui cala sempre la frase “come mai non ce ne siamo accorti prima”?
C’è un ambito in cui lavoro, dignità, gratificazione e soldi sono elementi chiave. Un posto che non conoscono “i figli di papaà” o coloro che possono contare su aiuti ed appoggi di altri.
È la categoria in cui sono costrette a restare persone che vivono in uno status di (quasi) perenne instabilità: i precari.
Uno dei tanti fanalini di coda del dibattito pubblico. Gente che non influenza le scelte politiche e che, nell’era dell’incertezza su qualsiasi cosa, soprattutto sul futuro, non ha alcun posto, nemmeno quello di lavoro, mentre si discute dell’ennesima emergenza.
Ci sono temi che scottano (di più).
L’inclusività, l’immigrazione, la famiglia tradizionale e non, i diritti dei pensionati, la salute di quelli che hanno ceduto ad un vaccino imposto ed oggi sono alle prese con gli effetti collaterali e poi la patrimoniale e poi… e poi…
E del lavoro si parla sì, ma troppo marginalmente.
Conta poco il lavoro. Lo sa bene chi è stato sospeso perché non ha voluto cedere al ricatto vaccinale. Lo sanno gli over 50 che il Sistema ha cercato, invano, di sbaragliare con la pretesa del Green Pass.
Certo, tutti gli riconoscono importanza costituzionale, come sancita all’Articolo 1, nei Principi fondamentali, per cui “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Ma poi?
I lavoratori precari e atipici (ovvero quelli autonomi o erogati da agenzie interinali, altrimenti definiti “lavoratori in somministrazione”), svolgono un ruolo fondamentale nella nostra società, anche se non tutti lo sanno, dal momento che le loro condizioni spesso passano inosservate.
Nel nostro Paese, l’equazione tra posto fisso e lavoro pubblico è marcatamente radicata nella società e nella cultura, tuttavia, la realtà è che molto è realizzato grazie all’impegno di questi fantasmi che tengono in piedi servizi fondamentali.
Le stime del 2022, parlano chiaro: quasi 422 mila precari operano all’interno della pubblica amministrazione italiana ed oltre 200 mila non hanno contratti a tempo indeterminato.
Numeri che rappresentano quasi il 20 per cento del personale pubblico.
Tra il 2011 e il 2020, il numero di contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione è cresciuto notevolmente (più 145 mila), a fronte del calo drastico di quelli a tempo indeterminato (meno 73 mila).
Una tendenza emersa come risposta al progressivo pensionamento dei lavoratori più anziani: i contratti a tempo determinato sono più economici, non prevedono scatti di carriera e offrono maggiore flessibilità rispetto a quelli a tempo indeterminato.
E così si salva la spesa pubblica!
Il risultato è che settori chiave della pubblica amministrazione dipendono dal lavoro e dalla dedizione di persone con contratti sempre in scadenza e stipendi inferiori rispetto ai colleghi assunti a tempo indeterminato.
E se un dipendente precario del settore pubblico volesse affrontare una causa di lavoro? Non otterrebbe neppure il reintegro, semmai un indennizzo.
Lavoratori precari sono attivi nei settori cruciali della società: dalla sanità alla ricerca, all’istruzione.
Nella sanità – già malmessa ancor prima dell’emergenza sanitaria – la precarietà è la regola e si aggancia all’impoverimento del lavoro e all’aumento della pressione lavorativa.
Nella scuola è la stessa antifona.
Circa 200 mila insegnanti cambiano istituto ogni anno, in forza di un sistema che quasi mai premia chi è più meritevole.
Docenti che ricevono stipendi risibili, che non hanno diritto alle ferie, a scatti di carriera, ma che senza di loro, il settore educativo italiano sarebbe in grave difficoltà.
Dal canto loro, anche le università italiane sono dipendenti dai precari (che assurdo paradosso!): borsisti e ricercatori a tempo determinato sono costretti a cimentarsi in concorsi pubblici che scivolano frequentemente su clientelismo e nepotismo.
Tutto questo ha un impatto significativo sui più giovani, costretti a lavorare senza garanzie tangibili.
Nessuna meraviglia, dunque, se poi c’è chi non cede a questo ricatto e decide di andare all’estero.
Quali sogni si possono realizzare in questa triste realtà? Un matrimonio? Una casa? Una famiglia?
Sarebbe importante, invece, riflettere – dal punto di vista politico – su come garantire, a tutti questi lavoratori, una maggiore sicurezza economica e prospettive di carriera migliori, poiché, sebbene fuori dai riflettori, sono tuttavia individui da tutelare, attori e non semplici spettatori nel teatrino della nostra società.