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I test PCR, i tamponi che vengono usati per controllare i numeri della pandemia e per stabilire la positività dei soggetti contagiati, sono da invalidare!
A stabilirlo una ricerca scientifica realizzata dal prof. Roberto Serpieri – Ingegnere e docente all’Università degli Studi della Campania – qui intervistato, insieme col dott. Fabio Franchi – ex Dirigente Medico Specialista in Igiene preventiva e Malattie infettive.
Serpieri è ospite di Beatrice Silenzi – Giornalista.
L’ing. Serpieri spiega cosa li ha portati a questa scoperta.
“Subito dopo la sua introduzione nel 1987, la reazione a catena della polimerasi (PCR) è diventata una tecnica basata su cicli ampiamente utilizzata nei dispositivi medico-diagnostici e nelle scienze forensi con l’intento di amplificare le informazioni genetiche.
Il raggiungimento di un sufficiente grado di fedeltà è obbligatorio per l’affidabilità delle applicazioni; tuttavia, la PCR prescrive che ciascuno dei suoi cicli includa un sottoprocesso di riscaldamento a 95°C o più, denominato denaturazione del DNA, che può comportare un rischio di rottura della molecola di DNA.
Comprendendo che la conditio sine qua non per la fedeltà della PCR è prevenire tale interruzione, viene presentata una revisione della letteratura storica degli anni 1950-1960 che chiarisce gli effetti del riscaldamento sulla possibile frammentazione del DNA.
La conclusione principale di questa revisione è che l’insieme delle prove esaminate conferma in modo coerente e ridondante tale interruzione quando il DNA viene riscaldato a temperature superiori a 90°C, anche per un minuto.
Ciò sembra contraddire il paradigma della fedeltà della PCR e porta gli autori a sollevare la preoccupazione che la PCR possa amplificare le informazioni, ma, almeno per sequenze lunghe, in modo inaffidabile.
Ciò dovrebbe aprire una discussione su cosa potrebbe significare il paradigma PCR nei vari campi in cui viene utilizzata la PCR”.
Questo è link pubblico del lavoro
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Quello citato non è un lavoro (come dichiarato) ma un preprint, mai accettato per pubblicazione, non revisionato da esperti del settore. Una svista non da poco, visto che chiunque può scrivere quello che vuole ma fintanto che la ricerca non viene revisionata da esperti del settore ed accettata per pubblicazione non ha alcun valore. Sarei curioso, invece, di sapere cosa i revisori hanno risposto in merito a quel manoscritto, la cui pubblicazione, evidentemente, non è andata a buon fine.
Niente da fare, alcuni proprio non ce la fanno a ragionare con la loro testa. Infatti il bravo francesco si occupa solo dell’aspetto formale, il contenuto non ha alcun valore a meno che l’elaborato non sia stato accettato per la pubblicazione, unica garanzia – sempre per lui – di qualità. Purtroppo la realtà è ben diversa: gran parte dei lavori scientifici pubblicati con peer review, anche su riviste di prestigio, è FALSA. Tale affermazione non è stata contestata da alcuno, ed anzi confermata in pieno (non voglio offenderlo citando chi lo provò, essendo noto a tutti i ricercatori). Quindi garanzia un piffero!
Un altro aspetto importante, sfuggito a cesco: noi non abbiamo proposto uno studio sperimentale, che ha effettivamente bisogno di controlli e verifiche adeguati. Abbiamo ragionato sulla letteratura (peer reviewed) esistente, sulle prove che ci sono già, sul lavoro degli altri, di quelli bravi. Ed allora non ci sono impedimenti per il lettore interessato, e con qualche competenza di base, a valutarlo direttamente. Per la pubblicazione il problema c’è: il lavoro in effetti è molto corposo, 64 pagine, al di fuori dei limiti per molte riviste. Stiamo pensando di farne un estratto.